Sulla neve

 

 

 

Come si apre una strada nella neve vergine? Un uomo marcia in testa, sudando e bestemmiando, muovendo a stento i piedi, continuando a sprofondare nella neve molle, alta. Va avanti, sempre più lontano, lasciando sul suo cammino buche nere e irregolari.  Stanco, si stende sulla neve, si accende una sigaretta, e il fumo della machorka si spande in una piccola nuvola azzurra sopra la neve bianca, scintillante. Lui è già ripartito e la nuvoletta resta sospesa là dove si era fermato a riposare: l’aria è quasi immobile. Vengono sempre scelte delle giornate serene per aprire una strada, perché il vento non cancelli il lavoro umano. L’uomo trova da solo i punti di riferimento nell’infinità nevosa – una roccia, un albero alto – e guida il proprio corpo sulla neve come il timoniere guida la barca lungo il fiume, da un capo all’altro.
Una fila di cinque o sei uomini, spalla a spalla, marcia lungo la sottile e incerta pista appena tracciata. Posano i piedi accanto al solco, non dentro. E raggiunto il punto prestabilito fanno dietrofront e ricominciano a marciare calpestando la distesa di neve vergine, dove ancora non si è mai posato piede umano. E la strada è tracciata. Se si seguissero le orme del primo uomo si avrebbe un cammino visibile ma appena praticabile: un sentierino e non una strada – buche sulle quali avanzare è più difficile che sulla neve vergine. E’ il primo uomo che ha il compito più duro, e quando le forze gli vengono meno uno dei cinque compagni del gruppo di testa va a dargli il cambio.  Tra quelli  che seguono le sue tracce, tutti, anche il più piccolo o  il più debole, devono camminare su un angoletto di neve vergine, e non sulle orme altrui.  Quanto ai trattori e ai cavalli, su quelli non vanno gli scrittori, ma i lettori.



 

 

 

Varlam Šalamov,  I racconti della Kolyma,  traduzione di Marco Binni, Adelphi  edizioni