Bolzoni Lina_Una meravigliosa solitudine, l'arte di leggere nell'Europa moderna


Alcuni brani da questa lettura..

 

'Questi uomini rozzi si meravigliano ch’io osi disprezzare le delizie ch’essi considerano beni supremi, e non comprendono né la mia felicità né quel piacere che mi danno alcuni amici segreti, che da tutte le parti del mondo ogni età m’invia, amici illustri per lingua, ingegno, guerre, facondia; amici non difficili, che si contentano di un angolo della mia modesta casa, che nessuna mia domanda rifiutano, che premurosi mi assistono e non mai mi danno fastidio, che se ne vanno a un mio cenno e richiamati ritornano. Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v’è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m’insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d’agricoltura, d’eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge'.  
(F. Petrarca, Epystole metrice, 1338/1348, a Giacomo Colonna)

'Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre'.
(F. Petrarca, Lettera alla posterità)

'È certo di gran profitto parlare con voi, o uomini illustri, tanto rari in ogni età ma mai come in questa nostra oppressa dall’ignoranza. Ogni giorno, e con un’attenzione difficile ad immaginarsi, io vi ascolto parlare tanto che, forse non a torto, merito di venire ascoltato da voi almeno una volta'.  
(F. Petrarca, Lettera a Seneca, Le familiari, 1348)

C’è un’opera di Petrarca che in un certo senso media fra la sterminata ricchezza della biblioteca e il bisogno di avere a disposizione, quasi distillati in un alambicco, i tesori, gli insegnamenti, che di volta in volta ci servono: è il De remediis utriusque fortunae….
Non ti voglio certo distogliere, dice Petrarca al dedicatario dell’opera, Azzo da Correggio, dal consultare le opere più impegnative dei filosofi nella tua guerra contro la Fortuna, ma voglio aiutarti con delle armi già preparate ‘perché tu sia equipaggiato intanto con delle sentenze brevi e succose, come se fossero delle armi pronte e continuamente a disposizione contro le ingiurie e tutti gli attacchi improvvisi che vengono da ogni parte’.
‘A questo soprattutto ho badato, che non sia necessario ripercorrere l’intero armadio ad ogni sospetto e strepito dell’arrivo del nemico, ma che piuttosto tu abbia per così dire sotto mano, pronto all’uso, in ogni tempo e luogo, per ogni male e per ogni bene dannoso che la sorte buona o cattiva ti arreca, un rimedio breve, ma confezionato da mano amica, quasi antidoto non inefficace alla duplice malattia, contenuto in una piccola ampolla’.   

Secondo un antico topos, la parola celebra la sua superiorità sull’immagine, in quanto capace di portare con sé il ritratto vero e segreto dell’assente. La lettera autografa in particolare conserva e trasmette anche una traccia fisica, “l’impronta della sua mano”: un’idea, questa, che dura a lungo, e trova formulazioni diverse…
‘Tu mi scrivi spesso – scrive [Seneca] a Lucilio – e io ti ringrazio: ti mostri a me nell’unico modo possibile. Ogni volta che ricevo una tua lettera, siamo subito insieme. Se i ritratti dei nostri amici assenti ci sono graditi, perché rinnovano il ricordo e alleviano la nostalgia con un falso ed effimero conforto, tanto più ci è gradita una lettera, che porta le vere tracce, i veri segni dell’amico assente. La sensazione più dolce che si prova alla presenza di un amico, il riconoscerlo, ce la dà l’impronta della sua mano nella lettera.’ (Seneca, Lettere a Lucilio)

C’è un’opera di Petrarca che in un certo senso media fra la sterminata ricchezza della biblioteca e il bisogno di avere a disposizione, quasi distillati in un alambicco, i tesori, gli insegnamenti, che di volta in volta ci servono: è il De remediis utriusque fortunae... Fra i rimedi che si possono approntare c’è il colloquio con i grandi del passato che la lettura rende possibile… Sono loro, continua Petrarca, a guidarci nelle tempestose acque della nostra vita. Non ti voglio certo distogliere, dice Petrarca al dedicatario dell’opera, Azzo da Correggio, dal consultare le opere più impegnative dei filosofi nella tua guerra contro la Fortuna, ma voglio aiutarti con delle armi già preparate ‘perché tu sia equipaggiato intanto con delle sentenze brevi e succose, come se fossero delle armi pronte e continuamente a disposizione contro le ingiurie e tutti gli attacchi improvvisi che vengono da ogni parte’. Poco più avanti l’immagine delle armi si intreccia con quella delle medicine: ‘A questo soprattutto ho badato… che… tu abbia per così dire sotto mano, pronto all’uso, in ogni tempo e luogo, per ogni male e per ogni bene dannoso che la sorte buona o cattiva ti arreca, un rimedio breve, ma confezionato da mano amica, quasi antidoto non inefficace alla duplice malattia, contenuto in una piccola ampolla’. L’opera nasce cioè dall’ordinata disposizione di quel materiale che Petrarca ha tratto dalle sue letture: sentenze brevi ed efficaci vengono collocate, come in una ideale farmacia (o armeria), a riempire le caselle dei vari casi della fortuna, buona o cattiva.
 

...nello stesso tempo è affascinante vedere come alcune metafore attraversino, e leghino fra loro, le questioni del restauro delle rovine antiche, del recupero del vero volto dei testi, della produzione di nuove opere. E sono metafore in cui è forte la carica del desiderio che il frammento riprenda vita. Alla luce della ricomposizione dei frammenti e della rinascita viene letto anche il compito che Leone X aveva affidato a Raffaello, di ricostruire la mappa della Roma imperiale. Quando Raffaello muore, ancora giovane, nel 1520, fra coloro che lo piangono c’è il suo amico Castiglione, che rievoca da subito il mito di Asclepio:

'Il dio di Epidauro, poiché aveva sanato con la sapienza medica un corpo dilacerato e aveva richiamato Ippolito dalle acque stigie, fu egli stesso trascinato alle onde stigie, e così la morte diventò il premio di chi aveva dato la vita. Anche tu, Raffaello, mentre ricomponevi con il tuo mirabile ingegno una Roma con il corpo tutto dilaniato, e mentre restituivi alla vita il cadavere dell’Urbe lacerato dal ferro, dal fuoco e dal tempo, e lo riporti alla antica bellezza, movesti l’invidia degli dei, e la morte si offese perché potevi ridare l’anima a chi era morto da tempo, e perché ciò che una lunga epoca aveva distrutto a poco a poco, tu questo potevi ritrovarlo trasgredendo le leggi mortali. Così tu muori ahimè colto nella prima giovinezza, e ci ricordi che renderemo noi stessi e le nostre cose alla morte'. 

Il lettore che evoca l’autore per dialogare con lui compie dunque un rituale che si inserisce nel grande mito della rinascita, della possibilità di riportare alla luce quello che non è più, di ricomporre ciò che – nelle rovine antiche, come nei manoscritti lacerati dal tempo – è disperso e frammentario. In entrambi i casi si insegue un fantasma, mossi da un desiderio che si nutre di un senso di mancanza, di un rapporto insoddisfacente con il presente, con la realtà.

 

 


Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine, Einaudi, 2019