‘Sapete che siamo arrivati ad un bel punto! Se oggi non si scrive un racconto ameno, la gente se n'ha a male. 'Noi', dice la gente, 'cercavamo qualcosa di allegro ed invece troviamo della roba scientifica. Così non va. Il nome dell'autore deve essere come la marca di un prodotto: deve essere una garanzia.'

Devo, quindi, scusarmi se questo racconto non farà ridere da capo a fondo. Non è colpa mia; io sarei ben contento di tenervi di buon umore, ma non posso. Si tratta di una signora intellettuale che affogò. Provate a ridere ora, se lo potete.

Qualche attenuante in mio favore la potrete trovare, pensando che ai nostri tempi è di moda il materialismo, e che io mi propongo di dimostrare come il misticismo, l'idealismo e l'amore eterno siano fisime e baggianate, e come, nella vita reale, gli unici a contare siano i rapporti d'indole pratica.

Lo so che qualche intellettuale di vecchio stampo ci rimarrà male, e forse si metterà a piangere, ma dopo le lacrime, per piacere, pensi al suo passato e a tutti gli errori commessi grazie ai grandi ideali mistici'

 

Zoščenko,   La signora dei fiori

 

Zoscenko, racconti

La lettera

 

Pelagia era analfabeta. Non sapeva scrivere neppure la propria firma. Suo marito, invece, era un alto funzionario sovietico; benché fosse nato e cresciuto in campagna, era differente da un contadino: non solo aveva imparato a scrivere, ma a saperci fare e si rammaricava che essa fosse tanto ignorante.
“Cara Pelagia, dovresti almeno imparare a fare la tua firma”, le ripeteva. “Il nostro cognome è di due sillabe: Kuc-Kin, nient’affatto difficile, eppure tu non lo sai scrivere. È davvero una cosa imbarazzante.”
Pelagia ribatteva: “E perché dovrei imparare? Il tempo passa; la mia mano non è più pronta. Figurati, alla mia età, cominciare a studiare. Lascialo fare ai giovani, a quelli che chiamano i pionieri: io diventerò vecchia lo stesso senza imparare a scrivere”.
Il marito di Pelagia aveva molti impegni e non era abituato a sciupare il tempo in discussioni; scrollava la testa con un’espressione scontenta, come per dire: “Ah Pelagia, Pelagia..” e non aggiungeva parola.
Un giorno, tuttavia, capitò a casa con un libro: “Questo è per te, Pelagia, è l’ultimo sillabario. Potrai imparare a leggere ed a scrivere da te sola, senza maestri; se avrai bisogno, comunque, appena avrò un po’ di tempo libero ti aiuterò”.
Pelagia sorrise; non disse nulla, prese il libro, lo rigirò tra le mani e finì per nasconderlo nel cassetto di un armadio, decisa a lasciarlo in eredità ai suoi nipoti. Ma un altro giorno, mentre stava per ricucire una manica della giacca del marito, le sue dita toccarono, attraverso la stoffa, qualcosa che mandò un fruscìo come di carta.
“Deve essere del denaro”, essa pensò.
Frugò nella tasca della giacca e trovò una lettera. La busta era linda e sottile, la scrittura fitta ed accurata; il foglio emanava un lieve profumo.
Pelagia si impensierì.
“Possibile!,  pensò “che Ivan mi tradisca senza ragione?  O, forse, riceve delle lettere d’amore da signore colte, che ridono di me, povera ignorante?”
Esaminò con grande attenzione la busta, ne estrasse il foglio, lo distese; ma cosa poteva capirci se non sapeva leggere?
Per la prima volta in vita sua, Pelagia se ne rammaricò. “La lettera non è per me”, rifletté, “eppure devo sapere cosa dice. Forse dovrò mutare completamente la mia vita e tornare a fare la contadina.”
Cominciò a piangere, a pensare a certe nuove abitudini che Ivan aveva preso, all’insolita cura che aveva per i baffi e per le mani. Più ci pensava, stando ancora seduta con la lettera tra le mani, e più si disperava; ma la lettera era come una porta chiusa per lei ed essa si sarebbe vergognata a farsela leggere da una persona estranea. Alla fine, la ripose nel cassetto dell’armadio, riprese a cucire attendendo che il marito tornasse. Ivan non s’accorse di nulla: i due scambiarono le solite frasi e soltanto più tardi Pelagia affermò che s’era decisa ad imparare l’alfabeto, stanca di essere così ignorante.
Ivan se ne rallegrò e promise di aiutarla.
“Cominciamo subito”, disse Pelagia, mentre guardava con nuova attenzione i baffi del marito, accuratamente spuntati.
Per due mesi Pelagia continuò a studiare senza interrompere neppure per un giorno. Con grande pazienza imparò a sillabare, a ricopiare le lettere dell’alfabeto ed a comporre le parole.
Ogni sera prendeva dal cassetto il foglio misterioso, tentando di decifrarne il contenuto.
Ma non le riusciva ancora. Soltanto al terzo mese, essa cominciò a leggere correntemente.
Una mattina, dopo che Ivan si era recato all’ufficio, Pelagia aprì il cassetto, tolse la lettera e si preparò a leggerla. La fitta scrittura le rendeva il compito più difficile, ma il profumo che il foglio emanava era come uno sprone per lei.
La lettera era davvero indirizzata a suo marito e diceva: “Stimatissimo compagno Kuc-Kin, eccoti il sillabario desiderato. Credo che in due o tre mesi tua moglie se la caverà. Promettimi, amico mio, di obbligarla a studiare; spiegale come lo studio è tanto importante per una donna quanto è repugnante l’ignoranza. Per l’anniversario della repubblica sovietica noi cerchiamo di liquidare l’analfabetismo in tutto il paese e non dobbiamo dimenticarci neppure di coloro che vivono nella nostra casa. Senza fallo, Ivan. Saluti comunisti,                  

Maria Blochina”.

 

 

 

S'intensifica la produzione

 

Non appena sentii la brusca scampanellata, mi precipitai alla porta.
L’aprii. Un individuo irruppe nell’anticamera. Egli era evidentemente fuori di sé. Aveva la bocca spalancata, i baffi spioventi, gli occhi stralunati; dal mento gli scendeva un filo di bava. La giacca era sbrindellata ed infilata su un braccio solo.
“Il contatore”, urlò con voce roca e selvaggia, “presto, dove hai il contatore?”
Emisi un “oh” di sorpresa e di timore ed indicai il muro dove stava l’apparecchio.
L’uomo saltò su un tavolino, calpestando un pregevole cappello di donna, e lesse le cifre sul contatore.
“Chi sei, compagno”, domandai ancora sbalordito, “non saresti per caso il controllore della luce?”
“Sì”, rispose l’uomo, “io controllo e corro via.”
Saltò giu’ dal tavolo, urto’ con una gamba nello spigolo della cassapanca, e gemendo raggiunse la porta.
“Compagno, amico”, io dissi, “e se ti riposassi per un momento? Hai l’aria così stanca.”
Si fermò, sospirò e disse:

“Sì, ho faticato oggi… Ho fatto centro controlli.. Prima se ne dovevano fare solo sessanta, ma il minimo ora è di ottanta; e se ne fai di piu’, tanto meglio: ti danno un premio. Conto di arrivare prima di sera a centocinquanta. Mi contento di poco, io. Non sono ambizioso.”
“Bé”, io dissi, mentre cercavo di rimettere in forma il cappello schiacciato, “ma se ce la fai per centocinquanta, non c’è male.”
“Sì, che ce la faccio, ma la gente non è ancora abituata al progresso… Non le piace la velocità. Al numero sette di questa strada mi ha scambiato per un ladro. Si è messa a gridare. Al numero nove ho urtato per caso un tavolo, l’ho fatto a pezzi: grida e lamenti di nuovo. Nella casa vicina, si sa, certi incidenti succedono quando si ha fretta, ho spostato dal muro il contatore. L’inquilino voleva picchiarmi… Non gli piace un contatore che penda dalla parete. Guarda l’estetica, dice. Ah, compagno, la gente non capisce. Solo in casa tua trovo comprensione…
Quel cappello è buono ancora, no? Devo averlo schiacciato, quando sono montato sul tuo tavolino.”
“Tutti i guai si rimediano”, risposi io con tatto.
“Pero’, anche questa moda femminile dei cappelli con le penne”, esclamo’ il controllore scuotendo la testa in segno di disapprovazione; si trattenne qualche attimo sull’uscio concludendo:
“Quanti ostacoli all’aumento della produzione! Uno si fa in quattro nel suo mestiere, corre, suda, fatica e la gente, ignorante e stupida, protesta. Bé, bisogna che vada. Saluti”
Le su gambe ebbero uno scatto elastico ed egli si gettò a pesce giù per le scale.

 

 

L'usignolo

 

 

Bylìnkin non riusciva più a riconoscere se stesso e pensava, quasi con sgomento, che dopo essere stato su tutti i fronti ed essersi guadagnato il diritto all’esistenza attraverso non comuni difficoltà, avrebbe ora dato volentieri la sua vita per un cenno capriccioso di Lìzocka.
Richiamando alla memoria le immagini delle donne conosciute, anche dell’ultima, la moglie del pope, con la quale sono convinto egli aveva avuto, se non altro, un romanzetto, egli pensava di essere arrivato soltanto adesso, a trentadue anni, al vero amore, alle genuine emozioni di questo sentimento.
Se Bylìnkin risentisse l’influenza dei suoi succhi vitali o se tutti gli uomini siano inclini ai sentimenti astratti, è ancora un mistero della natura. Comunque stessero le cose, egli era diventato un uomo completamente diverso, come se la composizione del sangue, all’improvviso, si fosse mutata nelle sue vene. Tutta la vita passata gli appariva meschina e ridicola di fronte ad una così sublime forza d’amore. E Bylìnkin, il cinico Bylìnkin, provato duramente, rimasto quasi sordo per lo scoppio dei proiettili, che spesso aveva visto la morte in faccia, il disincantato Bylìnkin cedeva alle velleità della poesia, ed aveva finito per scrivere una decina di poemetti ed una ballata.

 

..
 

Così finì quell’amore.
Sono certo che in un’altra epoca, diciamo, tra trecento anni non sarebbe finito; sarebbe invece sbocciato come un fiore magnifico e straordinario. Ma la vita d’oggi ha le sue leggi ferree.
Per concludere, devo confessare che nello svolgere questa storia d’amore mi sono lasciato trascinare dalle vicende dei personaggi ed ho trascurato l’usignolo accennato nel titolo. 

 

.. Voglio solo ricordare alcuni particolari che avevo dimenticato. Questi si riferiscono all’epoca in cui l’amore tra Lìzocka e Bylìnkin era al suo apice, quando essi uscivano di città e vagavano sino a notte nel bosco. Qui, ascoltavano lo stridìo degli scarabei e il canto dell’usignolo. Rimanevano a lungo immobili ed in silenzio, poi, la ragazza, torcendosi le mani, domandava:

 “Vasja, che pensi? Perché canta l’usignolo?”
Egli rispondeva con sicurezza: “Perché vuol mangiare, ecco perché canta”.
Solo più tardi, quando conobbe meglio la ragazza, egli complicava la sua spiegazione e diceva che l’uccello cantava di una futura bellissima vita.
Anch’io la penso precisamente così. Fra trecento anni, od anche prima, ci sarà una vita magnifica. Ma bisognerebbe che il tempo passasse in un baleno, come succede in sogno, perché potessimo cominciare a vivere davvero.
E se anche allora si vivesse male come adesso, anch’io mi rassegnerei a considerare me stesso una figura superflua. E potrei gettarmi sotto al tram.


 



M Zoščenko, Novelle moscovite, Passigli editori, 1992




 

Biografia


 

'Sono nato a Poltava nel 1895. Ho terminato il liceo nel 1913, e mi sono iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Pietroburgo. Non ho concluso i corsi. Nel 1915, sono partito volontario per la guerra. Sono stato ferito e intossicato dai gas.
E quindi ricompensato con una malattia cardiaca. Ero capitano. Nel 1918 sono entrato volontario nell'Armata Rossa. Nel 1919, sono ritornato libero. Nel 1921, mi sono dedicato alla letteratura. Per gli uomini del partito sono un uomo senza princìpi. E' ciò che penso anch'io: non sono comunista, non sono socialista rivoluzionario, sono semplicemente un russo.
E per di più, politicamente immorale. Non odio nessuno: questa è precisamente la mia 'ideologia'...

Ed ecco il nudo elenco degli avvenimenti che  mi riguardano: sei volte arrestato; una volta condannato a morte; tre volte ferito; due tentati omicidi; tre volte bastonato. Tutto questo è avvenuto non per spirito di avventura, ma semplicemente per caso: non ho avuto fortuna. Mi sono guadagnato un mal di cuore e, forse per questo, sono divenuto scrittore, altrimenti sarei ancora aviatore… '