Hamsun-Fame

 

Mi  venne restituita senza difficoltà. L’uomo mi portò il panciotto e contemporaneamente mi pregò di frugare in tutte le tasche;  trovai anche un paio di bollette di altri pegni, che mi ficcai in tasca, e ringraziai quell’uomo cordiale per il suo spirito di comprensione. Quell’uomo mi andava sempre più a genio e ci tenevo anche che si facesse una buona idea sul mio conto. Feci un passo verso la porta e ritornai al banco, come se avessi dimenticato qualche cosa, mi sembrava di dovergli una spiegazione, un chiarimento, e mi  misi a canterellare per attirare la sua attenzione. Presi poi in mano la matita e la tenni in aria.
– Non mi sarei mai sognato di fare tanta strada per una matita qualunque – dissi – ma per quella era un’altra cosa, c’era un motivo preciso. Per piccino che potesse sembrare, quel mozzicone di matita mi aveva semplicemente fatto ciò che ero nel mondo, mi aveva, per così dire, messo al mio posto nella vita…
Non dissi altro. L’uomo si avvicinò al banco.
– Davvero? – disse e mi guardò con curiosità.
– Con quella matita – continuai impassibile – avevo scritto il mio trattato sulle cognizioni filosofiche in tre volumi. Non ne ha sentito parlare?
E all’uomo sembrava di averne udito il nome, il titolo.
– Già – dissi – quella è un’opera mia! – Non doveva perciò stupirsi se desideravo riavere quel piccolo mozzicone di matita; esso aveva per me un valore straordinario, era per me quasi un piccolo essere umano. Del resto gli ero grato davvero per la sua benevolenza e me ne sarei ricordato, sì, sì, me ne sarei ricordato sul serio; una parola era una parola, ed io ero un uomo di parola e ci poteva contare. Addio.
Mi diressi alla porta col portamento di chi ha la possibilità di collocare un uomo in un posto elevato. E il garbato impiegato s’inchinò due volte davanti a me mentre mi allontanavo e mi voltai ancora una volta e dissi addio.

 



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Quella coperta da letto verde intanto mi dava fastidio; non era neppure conveniente portare un pacco simile sotto il braccio davanti agli occhi di tutti. Che cosa dovevano pensare di me? E camminavo almanaccando su un luogo dove avessi potuto depositarla. Allora pensai bene di entrare in un negozio e farmela incartare; il pacco avrebbe avuto subito un altro aspetto e non sarebbe stata più una vergogna portarlo. Entrai in una bottega e mi rivolsi ad uno dei commessi.
Egli guardò prima la coperta, poi me; mi sembrò che, ricevendo il pacco, in cuor suo alzasse un po’ le spalle in segno di poca considerazione. Questo mi urtò.
– Ma diamine, stai un po’ attento! – gridai. – Ci sono dentro due preziosi vasi; il pacco deve essere spedito a Smirne.
Un certo effetto, un grande effetto. L’uomo, ad ogni movimento che faceva, mi  chiedeva scusa se non aveva subito capito che in quella coperta vi erano oggetti di gran valore. Quando ebbe terminato lo ringraziai per il suo aiuto col fare di un uomo che aveva già altre volte spedito oggetti preziosi a Smirne; egli mi aprì persino la porta quando uscii.

Mi misi a gironzolare tra la gente nello Stortorv e mi trattenni soprattutto accanto alle donne che vendevano piante in vaso. Le pesanti rose rosse che avvizzivano sanguigne e ruvide in quel mattino umido destavano i miei desideri, mi tentavano peccaminosamente a portarne via una di nascosto, e ne chiesi il prezzo soltanto perché mi fosse permesso di avvicinarmi ad esse il più possibile.
Se mi fossero avanzati soldi l’avrei comprata, ad ogni costo; avrei potuto risparmiare su questo e su quello nelle mie spese giornaliere per mantenere in equilibrio il mio bilancio.


 

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Avessi potuto soltanto togliermi di testa ogni idea di vergogna e rivolgermi a lui! Dirgli chiara e tonda la verità, che le mie condizioni cominciavano a diventare assai tristi, riuscivo a stento a tenermi in vita! Avrei potuto dargli un blocchetto dei buoni del barbiere.. Perbacco, il blocchetto dei buoni del barbiere! Buoni per quasi una corona! E nervosamente mi metto a cercare quel prezioso tesoro. Siccome non li trovo nella mia fretta balzo in piedi, li cerco tra il sudore dell’angoscia, li trovo finalmente in fondo alla tasca di petto insieme con altre carte, fogli bianchi e fogli scritti, senza valore. Conto quei biglietti parecchie volte in un senso e nell’altro; non sapevo più che farmene, era un mio capriccio, un’idea strana: non mi piaceva più farmi sbarbare . Una mezza corona mi avrebbe fatto comodo, una bianca mezza corona di argento del Kongsberg! La banca chiudeva alle sei, avrei potuto aspettare il mio uomo fuori dell’”Oplandske Café”, dalle sette alle otto.
Mi sedetti e mi rallegrai a quell’idea per qualche momento. Il tempo passava, un venticello soffiava tra i castagni intorno a me e il giorno tramontava. Ma non era una cosa un po’ meschina presentarmi con sei buoni per barba a un giovane signore che era in una banca? Forse avrà avuto in tasca due magnifici blocchetti, più eleganti e puliti dei miei, nessuno poteva saperlo. E tastavo in tutte le mie tasche cercando parecchie cose con cui avrei potuto presentarmi a lui, ma non ne trovai nessuna. E se gli avessi offerto la mia cravatta? Potevo benissimo farne a meno, purché avessi abbottonato la giacca sino al collo, ciò che comunque dovevo fare perché non avevo più il panciotto. (..)

.. Verso le otto finalmente vidi venire quel giovanotto fresco ed elegante e dirigersi al caffè. Il mio cuore smaniò nel mio petto come un uccellino quando lo scorsi e ciecamente  mi slanciai su lui senza salutare.
– Una mezza corona, vecchio amico – dissi sfacciatamente;  – qua, qua lei ne ha valore. – E gli ficcai il mio pacchetto nella mano.
– Non l’ho! – disse; - oh, Dio mio, se l’avessi! – e mi rovesciò il borsellino proprio davanti agli occhi.
– Ierisera andai fuori di casa e rimasi pulito; mi deve credere, non ce l’ho.
– No, no, caro amico, sarà così! – risposi e gli credetti sulla parola. Non aveva motivo per mentire, la somma era così piccola; mi sembrò anche che i suoi occhi si inumidissero quasi quando si frugava nelle tasche e non trovava nulla. Mi tirai indietro.
– Mi scusi, allora! – dissi; – mi trovavo in un certo imbarazzo.
Avevo già fatto un pezzo di strada quando mi gridò dietro tendendomi il pacchetto.
– Lo tenga, lo tenga! – risposi; – gliel’offro! Sono un paio di cosette, un’inezia, quasi tutto quello che io posseggo sulla terra.
E mi commossi delle mie stesse parole, avevano un suono così desolato in quella sera crepuscolare che mi misi a piangere.  (p  424/426)


In quel momento non avevo in testa tristi pensieri, dimenticavo la miseria e mi dava sollievo la vista del mare che, calmo e bello,  si stendeva nella semioscurità. Secondo una vecchia abitudine volevo godermi la lettura del brano che avevo scritto e che al mio cervello malato sembrava la cosa più bella che io avessi composto.





Knut Hamsun,  Fame, Sansoni Editore